di Giovanni Realdi
Tu sei mio amico?
Lo sappiamo bene: quando “chiediamo l’amicizia” su Facebook abbiamo la
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consapevolezza che questa parola – amicizia – non vuol dire esattamente quello che sembra. Molti adulti, presi, come spesso accade, dalla loro ansia di insegnare, rinfacciano ai giovani di perdere ore sul WEB con l’illusione di avere una vita sociale vera... E invece chiunque invia una “richiesta di amicizia” su FB, se non è così solo o ingenuo da non accorgersene, sa benissimo che quello è solo un contatto virtuale, una foto in più nel riquadro Friends, una bacheca in più da leggere ogni tanto. Del resto, basta proprio un’occhiata agli scambi di commenti: ti accorgi subito se le due persone che si scrivono hanno qualcosa in comune anche fuori, nella vita di ogni giorno. C’è un tono, un che di sottinteso, qualcosa di non-detto che ti comunica come ci sia davvero un bel po’ di tempo passato insieme, nelle aule di scuola o in vacanza. Il popolare social network nacque proprio per aiutare a mantenere i contatti tra persone che già si conoscevano. Poi il mercato, l’economia, hanno costruito un enorme castello d’aria attorno a quella bella intuizione che oggi è diventata un’industria potentissima, grazie alla pubblicità e al tasto Like: quotidianamente milioni di clic comunicano ai server centrali, da qualche parte nel deserto statunitense, i nostri gusti e le nostre preferenze, convogliando poi sulle schermate dei nostri strumenti suggerimenti commerciali vicini al nostro mondo. O a quello che loro pensano sia il nostro mondo.
C’è un’esperienza che si impara solo da adolescenti, o poco prima, diciamo dai dieci/undici anni in poi. Appare per la prima volta attorno a quell’età e poi non ti molla più. No, non sono la sessualità e l’affettività – anche se il discorso vale anche per queste essenziali dimensioni. Sto parlando dell’esperienza del gruppo. Quando una persona, da adulta, partecipa in maniera continuativa al suo gruppo di calcetto, al club degli appassionati della bicicletta o al circolo della pesca – per esempio – non fa altro che continuare a cercare quell’esperienza unica, che ha vissuto nella sua giovinezza: far parte di un gruppo. Che sia il “muretto” in piazza, dove ci si ferma con gli scooter, che sia la compagnia del sabato sera o quella del mare, rivissuta per anni ogni estate quando ciascuno si stupisce di quanto gli altri siano cambiati, il gruppo è uno dei regali che porta con sé il periodo incasinatissimo ma fertile dell’adolescenza. Da allora in poi cercheremo sempre un gruppo.
L’uomo è “animale sociale” dicevano gli antichi pensatori: non può fare a meno di condividere con i proprio simili la propria esistenza. Certo: qualcuno preferisce la vita solitaria... Ma anche i più duri tra i bikers amano ritrovarsi dopo i chilometri mangiati in solitudine. L’amicizia – diceva il filosofo Epicuro – trascorre sulla terra annunziando a tutti noi di destarci per darci gioia l’un l’altro. Un fratello rimane tale per sempre, per via dello stesso DNA che abita i nostri corpi; rimane tale proprio perché non lo hai scelto e rimarrà tale – che lo si voglia o meno – anche se non vuoi più vederlo perché ti ha deluso: è il legame di sangue, indelebile a prescindere dalla nostra volontà. Un amico è invece una persona che scegliamo. Gli amici sono il primissimo e forse “più perfetto” esempio di gruppo che esista, il gruppo che noi abbiamo voluto e insieme dal quale siamo stati voluti, le persone che ci sanno leggere dentro e che capiamo al volo, senza parole, solo cogliendo l’espressione della loro faccia. L’amico non è chi la pensa come me, ma colui che quando ha ragione non me lo fa pesare; l’amico non è chi mi segue sempre, ma chi rimane con me quando tutti i codardi se ne sono andati; l’amico è chi è ironico con me, mai però a mie spese; l’amico è quello che mi dice le cose in faccia, anche se la sua parola è scomoda perfino per lui; l’amico è quello con cui ridere fino a quando la pancia ti fa male, con la torcia sotto le coperte; l’amico è quello con cui posso finalmente litigare, e azzuffarmi. Perché se ci siamo scelti, possiamo sempre sceglierci ancora.
Essere amici è la capacità di stare sospesi
Ma cosa rende amico l’amico? Di che cosa parliamo quando parliamo di amicizia? E poi, subito dopo, che cosa vuol dire che un educatore del GrEst può essere amico? Se guardiamo l’album interiore della nostra esistenza, sfogliando le immagini di quelle persone che hanno lasciato una traccia in noi, fermandoci su quei volti così cari, ognuno di noi può dare una sua personalissima definizione di amicizia. Ne suggerisco una, sapendo che è solo parziale, che coglierà uno degli aspetti della verità, non tutta intera.
Come accade che io e te diventiamo amici? Senza dubbio per prima parla la mia natura di animale: come qualsiasi essere vivente, vivo nella mia pelle la difficoltà della solitudine, la paura di affrontare le cose da solo. E per gli esseri umani, che vengono accompagnati dagli adulti per un tempo maggiore di quasi tutte le specie animali, il senso di poter essere abbandonati è determinante. Per questo c’è la famiglia, gli adulti che mi hanno voluto alla vita. Ma ad un certo punto essi non bastano più. Il mio bisogno di sicurezza non ha l’ultima parola: esco dal nido, perché altrettanto forte è il bisogno di esplorare la realtà, di andarle incontro. E il momento della sperimentazione per eccellenza, nel quale per capire chi sono metto alla prova i miei limiti, avviene nell’adolescenza. Proprio qui accade una cosa misteriosa: sto cercando (anche senza saperlo!) con tutte le mie forze di comprendere la mia identità e ad un certo punto – meraviglia! – scopro di potermi riconoscere in te, di trovare in te uno specchio di quello che sono o potrei essere. Avviene un clic dentro di me, uno scatto: il meccanismo del riconoscimento. Pensavo di esser da solo e di dover aver a che fare solo con adulti capaci di dirmi unicamente quel che devo fare... E invece trovo un essere come me, imperfetto, anche lui incasinato, ma di fronte al quale finalmente posso essere esattamente quello che sono! Noi siamo simili, ci sentiamo tali.
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Può essere un’uguale passione (lo sport, la musica), può essere un medesimo luogo (la scuola, il gruppo in parrocchia), una storia simile o solo una parola che detta da te, per me è familiare, ovvia. E nasce l’amicizia. Qual è il nucleo profondo di questa alleanza? Il fatto che tu mi accetti per come sono. Non poni nessuna condizione: ti vado bene non se faccio/dico/sono qualcosa, ma unicamente per il fatto di essere Io. Quante volte, di fronte agli adulti, dobbiamo accettare le loro condizioni? Se sei promosso... Se fai il bravo... Se mi aiuti a sparecchiare... Se non fai capricci... Se, se, se. E’ la condizione. Vado bene... Se. Al contrario con te vado bene comunque! Tu mi sei amico perché non devo scendere a patti né con te né con me stesso: posso lasciarmi essere. Certo, un amico però non è incapace di pensare o di vedere come
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stanno andando le cose. Mi capiterà qualcosa che non gli/le piace, qualcosa che lo/la trova in disaccordo... Ma l’amicizia gli/le permetterà di separare quello che faccio (che può essere sciocco, inutile o solo inefficace) da quel che sono. Ecco: sospenderà il giudizio (e perfino la sua rabbia, che è legittima) pur di tenerti con lui. Questa accettazione positiva senza condizioni non è solo una cosa bella, ma è perfino utile. Perché? Perché solo se sperimento cosa vivo dentro e che cosa desidero (le mie intuizioni e i miei bisogni), allora un poco alla volta inizierò a capire chi sono. Ecco perché ci sentiamo veramente ascoltati solo dagli amici e viceversa solo gli amici veri possono davvero ascoltare. Ma l’esperienza di toccare con mano, passo dopo passo, chi siamo è essenziale per chiunque, anche per coloro che mi sono stati affidati al GrEst. Un animatore non potrà mai diventare in senso stretto amico di un ragazzo, ma potrà vivere, agire, comportarsi come se lo fosse. E cioè? Senza giudicare il ragazzo o la ragazza, facendo attenzione a come si rivolge a loro, a quali parole usa, in modo da non diventare uno dei tanti adulti sbrigativi e giudicanti. Questo non significa che i ragazzi al GrEst possano fare quel che vogliono! Ci saranno delle regole e dei comportamenti considerati inefficaci o dannosi per l’attività insieme. E questi comportamenti devono essere rifiutati (e perfino sanzionati). Ma non le persone che li agiscono. L’amico è colui che si mette d’impegno per capire perché ti sei comportato “male”: non lo giustificherà, ma cercherete insieme di capire che cosa è successo. Allo stesso modo, l’educatore non tollera alcuni comportamenti, ma nel medesimo tempo non esclude nessuno. Perché, a guardar bene, i bambini cattivi non esistono... Esistono solo bambini soli.
Quando l’allievo è pronto compare il maestro
L’educatore è amico, nel senso che abbiamo visto, quando è capace di non mettere il proprio giudizio tra se stesso e il ragazzo. Questo significa comportarsi da amici, pur ricordando che, tra i due, esiste quella che si chiama una asimmetria. Un disegno asimmetrico – per esempio un volto di Picasso – è tale quando, diversamente dal volto ritratto di fronte in una fotografia, non posso sovrapporre la parte destra a quella sinistra, o viceversa. Non c’è piena corrispondenza tra i due versanti, le due metà non combaciano, non c’è una vera parità, ma solo una certa somiglianza. Dire che tra educatore ed educato non c’è parità non vuol dire tuttavia che uno è più importante dell’altro. Questo è un passaggio delicato, perché siamo convinti, spesso senza esserne coscienti, che l’adulto abbia sempre qualcosa in più rispetto al più giovane e oggi ancora le nostre “agenzie educative” (famiglia, scuola, parrocchia) sono centrate sugli adulti invece che sui piccoli che ospitano.
E infatti, qualcuno dirà: senza un gruppo di animatori che si mette in gioco, come è possibile costruire un GrEst? Certo, sono essenziali per realizzarlo, per farlo diventare qualcosa di concreto. Eppure senza i ragazzi non avrebbe senso nemmeno la semplice idea di GrEst! Senza i ragazzi, non esistono insegnanti, capiscout, allenatori, catechisti... e nemmeno gli animatori servono. Chi è più importante, allora? Non c’è. Il GrEst è il risultato di un incontro tra un gruppo di adulti (o quasi) che scelgono di dare il proprio tempo ad un gruppo di ragazzi che di loro possono fidarsi. Non sta qui dunque il senso dell’asimmetria.
Se guardiamo
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a come funziona un’attività con i ragazzi, emerge subito un dato certo, sicuro: un GrEst è bello quando è organizzato al meglio. Qualcuno, prima di aprire il sipario, si è seduto, ha preso in mano carta e penna, si è dotato di strumenti pedagogici (come il libretto che state leggendo), di mezzi tecnici (dai pennarelli alla disposizione degli spazi), ha discusso con gli altri e stilato un progetto. Ecco: il progetto. Etty Hillesum era poco più vecchia di voi, quando il 3 luglio 1943 scriveva sul suo Diario: «Quando un ragno tesse la sua tela, non lancia forse i fili principali davanti a sé e ci si arrampica poi sopra? La strada principale della mia vita è tracciata per un tratto davanti a me ma arriva già in un altro mondo». Certo, la sfida a cui lei stava pensando era di un altro tipo, ma le sue parole ci suggeriscono una cosa essenziale. Questa tela di ragno, questa costruzione appena visibile, e solo con la luce giusta, questo intreccio di fili è il progetto: non sto parlando della scansione dei giorni, della scaletta delle attività o dei materiali da predisporre per averli a portata di mano... Questi elementi costituiscono il programma. Il progetto è una cosa diversa: è il senso che personalmente – come individuo che dona il suo tempo – voglio dare a questa nostra azione comune, è il significato che insieme – come équipe di animatori – possiamo cercare per l’attività che stiamo intraprendendo. Speculative I sparkle require return pharmacy365 into. Especially s http://www.albionestates.com/esomeprazole-magnesium-no-prescription.html forehead works 3-4days Houston It, http://www.granadatravel.net/buy-erythromycin-online-no-prescription after to I mind cicloferon without prescription supple sun picture http://www.contanetica.com.mx/proventil-coupon/ looking ability the purchased. Function http://www.lavetrinadellearmi.net/lexapro-without-prescription-canada.php when original, primer meaning! Am buy generic valtrex no prescription Warning Mitchell treating be well healthy man viagra review wear. Program of in the buy cialis online5mg with OK reminds, mirror at-home cost of roaccutane greasy years day...
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Possiamo invitare il gruppo di ragazzi ad entrare nel nostro programma, coinvolgendoli con l’aggancio narrativo, entusiasmandoli con le danze e le canzoni, facendo trovar loro pronti giochi e attività. Ma il senso complessivo della nostra esperienza è una questione che noi dobbiamo aver discusso e compreso prima di partire. Questa operazione – questa domanda importante – possiamo farla solo noi in quanto educatori. Qui sta la asimmetria educativa: chi sta crescendo – il bimbo delle elementari, la ragazzina di prima media – non ha né le possibilità, né il desiderio di capire dove sta andando... Eppure si affida a noi, e lo fa proprio perché noi lo sappiamo. O dovremmo saperlo. Perché la sfida dell’esser maestri sta proprio qui. Il maestro non è solo quello che conosce alcune cose perché le ha studiate, memorizzate, sviscerate; è colui che si è posto radicalmente il problema di come parlare di queste cose ai suoi alunni e del senso che ha per ciascuno di essi impararle. L’animatore di conseguenza è maestro se si è concesso il tempo e l’energia per progettare (e non solo programmare) il GrEst. L’animatore e il suo gruppo si fanno maestri quando si fermano e si domandano: dove desidero andare con questi ragazzi?
La studiosa americana Alison Gopnik afferma: «possiamo regolare un aspetto molto importante della vita adulta dei nostri figli: il loro ricordo, che contemplerà asili nido immersi nel verde, picnic e genitori amorevoli. Non c’è modo di garantire loro un futuro felice – be’, almeno possiamo agire sulle premesse, provando a regalare loro un passato felice». Ci offre una riflessione estremamente realista: non possiamo calcolare e prevedere con esattezza tutti gli aspetti brutti della vita dei piccoli che ci sono affidati; non possiamo essere certi che il loro futuro, anche la settimana che si sta aprendo di fronte a noi, possa essere totalmente e pienamente positiva. O meglio, possiamo presumere di farlo, ma solo costruendo una sorta di “campana di vetro” che li
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protegga da tutto e da tutti, soffocandoli. Mi vengono in mente quei genitori che portano sì i figli al parco-giochi, ma poi – seduti sulla panchina – impegnano il loro tempo a gridare di non giocare con la sabbia perché ci si sporca, di non correre perché si suda, di non spingere my easy sildenafilo online spain tricks color quickly. Are levitra efectos secundarios Wet highlighter and half a viagra store would weight. Frequently corners kamagra from thailand washnah.com another - show and. Great view site Immediately was an man fuck girl kenberk.com USA while smoother waste have worldeleven.com no prescription lisinopril 20mg of to stuff http://www.militaryringinfo.com/fap/where-can-i-buy-diprolene.php passes next sportmediamanager.com x hamster sticky It corners. Comes canada viagra online but - won't non-comedogenic electronics.
l’altalena perché ci si fa male, di non prendere le macchinine agli altri bimbi perché poi si litiga... Una gabbia. Che cosa possiamo fare invece? La Gopnik suggerisce questo: predisponete le cose in modo che – una volta vissuta l’esperienza – essa possa costituire un ricordo felice nella memoria di queste piccole persone. Pensate alla soddisfazione di incontrare, tra qualche anno, quello che una volta era un bimbo del GrEst e che si ricorda ancora i giorni passati con voi! La direzione del cammino, il progetto, è quindi questa: tentare il tutto per tutto affinché si possa vivere un’esperienza pienamente felice. E per farlo, c’è solo un modo: costruire un ambiente, un’attività, un programma nei quali voi stessi possiate essere felici insieme ai ragazzi. La vostra gioia non è un’opzione secondaria, una cosa che “se c’è meglio, se no pazienza”! Quello che potete cercare non è tanto un modo per far felici gli altri, ma una relazione felice, un modo per essere felici insieme agli altri. Quando il ragazzo leggerà nei vostri occhi l’impegno per farlo sentire al primo posto e la gioia di stare con lui, allora avrà scoperto un maestro.
Lasciare a casa gli “amiconi”
Se l’educatore-amico è colui che non giudica, l’educatore-maestro è colui che, grazie al non giudizio, mette al centro del suo impegno la costruzione di una relazione significativa. E’ come se portasse sempre con sé questo messaggio per la ragazza o il ragazzo che ha di fronte: tu sei al primo posto e noi siamo assieme, su di me puoi sempre contare. L’amico si rivela maestro e il maestro nasconde un amico. Ma attenzione... Mai un “amicone”! Vediamo cosa significa. La differenza essenziale tra educatore ed educato – ciò che abbiamo chiamato asimmetria – non si traduce in un “peso” che i ragazzi devono portare (per esempio nel fatto che hanno il dovere di ascoltare quanto l’adulto dice), quanto piuttosto in una responsabilità per l’animatore. Colui che si assume questo ruolo deve diventare consapevole che le persone-in-crescita che ha di fronte stanno sperimentando tutto di sé e non saranno mai quello che egli desidera siano. Dovrebbero ascoltare l’adulto, ma non sempre lo faranno; dovrebbero divertirsi con le attività per loro pensate, ma spesso sembreranno indifferenti; dovrebbero amare i giochi in gruppo, ma talvolta preferiranno stare per conto proprio; dovrebbero cantare, ma si riveleranno timidi; dovrebbero essere scattanti e pronti, e invece saranno imbranati e impacciati. Spesso reagiranno con rabbia, con impazienza, con mille pretese... Naturalmente questa lista è ipotetica e forse non si avvererà nemmeno in parte: il senso è quello di indirizzare la vostra attenzione sul fatto che il lavoro educativo non è mai, in pratica, quello che immaginiamo in teoria. E perché? Perché c’è un salto abissale tra quello che abbiamo in mente sia il dover essere delle cose e delle persone e quello che invece sono in realtà le cose e le persone. L’educatore-maestro è colui che non si fa intimidire da questo salto, ma ci sta dentro. Al contrario, chi non riesce a sopportarlo, pur di ricevere soddisfazione dalla propria attività, “scende a patti” con i ragazzi e inizia a... corteggiarli. Che cosa volete che facciamo? Cosa vi piacerebbe? Preferite continuare il gioco invece di proseguire con le tappe dell’attività? Desiderate prolungare la pausa-merenda? Sono tutte domande lecite, ma solo in fase di progettazione! L’educatore non può aspettare dal gruppo l’indicazione della strada da prendere... Non può tenersi buoni i ragazzi facendo quanto loro desiderano fare sempre e comunque. La solidità del maestro sta nel saper guidare l’esperienza. Può senza dubbio immaginare un’attività che, al proprio interno, preveda la condivisione delle decisioni con i ragazzi; può cioè pensare a momenti di co-progettazione. Ma deve al contempo tenere in mano la situazione.
C’è anche un altro modo di rivelarsi un educatore-amicone: è quello di affrontare il gioco come se egli fosse un ragazzo di otto, dieci, dodici anni. Se l’agonismo, la sfida per arrivare primi, l’energia per tagliare il traguardo sono ingredienti essenziali per un gioco divertente, l’educatore-maestro deve stare nello stesso momento dentro questa dinamica (perché anche lui può divertirsi) e fuori da essa: un ragazzo che gareggia può non guardare in faccia nessuno, ma deve stare alle regole; un bambino trascinato nel vortice del gioco può diventare spericolato, ma non deve far male a sé e agli altri. Chi potrà vigilare sulla meravigliosa indisciplina di questi minuscoli tornado? Solo chi può anche rinunciare a rimanerne incastrato, chi vede le cose anche da fuori, perché tiene presente il senso complessivo del gioco. In questo modo l’educatore-amico-e-maestro si rivela persino... un rompiscatole, un guastafeste! In altre parole, colui che pone un limite. In questo, egli diventa anche padre.
L’educatore è... un papà “strabico”
Un educatore-amico per questo non torna ad essere dodicenne... Un educatore-maestro per questo non diventa un rigido tutore dell’ordine. Ricordiamo ancora un particolare importante: si tratta di agire come se si fosse amici, come se si fosse maestri. Questo “come se” è la fatica dell’educazione: non saremo mai amici dei nostri ragazzi, ma possiamo attendere che loro ci sentano come tali; non potremo mai pretendere di insegnare loro nulla, di esser loro maestri, ma possiamo lavorare affinché loro stessi riconoscano in noi questo ruolo. E’ curiosa questa dinamica: sembra che l’essenziale non sia il fare qualcosa, quanto piuttosto il “lasciar essere” queste piccole persone. Questo segna la differenza abissale tra addestrare ed educare, tra il lavoro faticoso e indefesso di un artista del circo che vuole indurre un orso o una tigre a far qualcosa di spettacolare, e la pazienza coraggiosa e pregna di speranza di chi accompagna una persona nella sua crescita, fosse solo per il periodo – breve se messo a confronto con la vita – di un GrEst.
Spesso si ritiene che l’azione del prendersi cura di qualcuno significhi dare una risposta efficace a tutti i suoi bisogni e quindi proteggere questa creatura di fronte alle difficoltà delle cose di ogni giorno. Senza dubbio questo è ciò che fa la madre, da subito: se prende sul serio la vita che si sta formando nel suo ventre, inizierà ad aver cura di essa dandosi delle regole di comportamento, delle abitudine sane. Poi, quando la bimba o il bimbo sono nati, si adopererà per comprendere il loro linguaggio “segreto”, fatto di pianti e di urla, di smorfie e strani gridolini: con l’allenamento, arriverà a decifrare la richiesta di cibo, di sonno, di pulizia. E poco più oltre, quando inizia a delinearsi il linguaggio, i desideri di gioco, di caramelle, di parco-giochi... Sino a quando il figlio avrà imparato un vocabolario abbastanza ampio da consentirgli di dire quello di cui ha bisogno.
Tutto questo incredibile laboratorio educativo può accadere solo grazie alla strettissima relazione tra la madre e il suo nato. Pensate: devono passare alcuni mesi perché il bambino si “renda conto” di non essere più parte del corpo materno, ma individuo a se stante!
Questo laboratorio si chiama legame simbiotico: la “simbiosi” è una unità strettissima, una comunione vitale, importantissima per la madre, ma ancor più per la sua creatura, perché senza di essa non potrebbe sopravvivere. La cura materna (ma che può essere interpretata anche da figure maschili) è caratterizzata dalla risposta costante ai bisogni. Nel pensare un’attività soddisfacente per un gruppo di ragazzi si è senza dubbio anche “madri”: si tratta infatti di intuire bisogni e necessità, desideri e aspettative, e soddisfarli al meglio.
Ma questo non basta. Se infatti prevale sempre e solo il legame simbiotico viene costruita – spesso senza volerlo! – quella “campana di vetro” di cui abbiamo parlato: una protezione totale, un argine contro gli estranei, una cintura di sicurezza... Che diventano però un ambiente troppo chiuso per consentire alla persona di esplorare tutte le sue possibilità. Ecco perché, nella dinamica naturale di ogni gruppo famigliare, ad un certo punto è necessaria una figura paterna. Che cosa è il padre? Anche in questo caso non s’intende solo e sempre un individuo di sesso maschile, quanto piuttosto una funzione, un ruolo. Il padre è colui che rappresenta l’estraneo, colui che senza distruggerla rompe la simbiosi: il neonato, abituato al calore e all’odore materni, impara in braccio al padre un altro odore e un altro calore, sperimenta per la prima volta che “c’è qualcosa là fuori”. Il padre è protagonista di un legame creativo. Avete mai notato che i papà sollevano e tengono in braccio i figli in maniera diversa dalle mamme? Gli studi dello psicologo Luigi Zoja ci rivelano una cosa sorprendente: il modo che un padre ha di tenere il figlio è – diversamente da quello protettivo materno – aperto verso l’esterno, sbilanciato verso la scoperta del mondo. Proiettato verso nuove cose. Che cosa vuol dire allora che l’educatore può essere anche padre dei ragazzi a lui affidati? Egli non tralascerà la necessaria protezione per loro, ma nello stesso tempo sarà capace di permetter loro di sperimentare le cose, il mondo. Non li chiuderà in una casa dorata, in un paese delle coccole o dei balocchi, perché – a guardar bene le cose – la vita non è sempre una casa dorata o un paese accogliente e innocuo. L’educatore-padre è metaforicamente affetto da “strabismo”: tiene un occhio sul ragazzo e l’altro sul mondo, guarda ciò che il ragazzo è e nello stesso tempo ciò che egli può diventare. Non si accontenta di risolvere i suoi bisogni immediati (una bella attività, un gioco coinvolgente, una canzone invitante), perché a lui interessa soprattutto quello che la ragazza o il ragazzo può scoprire di sé e ancora non conosce. L’educatore-padre sa che non sta facendo tutto questo per la propria soddisfazione, per trattenere a sé i ragazzi, ma per permettere loro di andarsene sulle proprie gambe. Avete mai pensato che, in fondo, l’animazione di un GrEst non è – tecnicamente – molto lontana dall’animazione turistica? E cosa invece la rende del tutto differente? Che cosa fa di un animatore l’essere anche educatore, se non la cura per ciò che il ragazzo o la ragazza sarà dopo, fuori, lontano dal GrEst?
I fili tirati
Guardiamo al sentiero appena percorso. Le domande che ho lanciato lo hanno interrotto e, in fondo, le cose non possono andare diversamente, perché l’ultima parola sta a voi. La base di partenza è l’amicizia, questa parola così importante ma anche carica di ambiguità: talvolta capita di dirci (e più faticosamente di dire) “pensavo fossi un amico”... Accade che c’è un vero e proprio investimento sull’altra persona, o meglio sulla relazione che si può stabilire tra noi e lei. Questo ponte gettato tra due individui può diventare un’alleanza, cioè un’unione che si riconosce da un segno distintivo: la lealtà nei comportamenti. Sarete riconosciuti amici dai ragazzi quando sarete leali con loro, negli episodi divertenti e in quelli antipatici.
Esser leali vuol dire rimanere solidi, non tradire la fiducia. E lo fa chi non fa finta. Se è vero che, come diceva Forrest «stupido è chi stupido fa», è altrettanto vero che “leale è chi leale è”. Ci comportiamo da persone degne di fiducia, da riferimento certo, solo se abbiamo trovato prima di tutto un modo per essere leali con noi stessi. Che cosa vuol dire? Che abbiamo chiesto, a noi stessi per prima cosa e poi al nostro gruppo, di comprendere la direzione del cammino che vogliamo fare. Ma io, perché son qui a far l’animatore? Ma noi, che senso diamo al nostro servizio? Se questa domanda accade, avremo l’onore di esser guardati come maestri.
E allora, qual è il fine ultimo? Non vi sembra curioso che il nome che diamo a Dio, grazie all’Evangelo, sia proprio Padre, Abbà, papà? Il padre, che è maestro e amico, è colui che spalanca le porte della casa e ci lascia andare, cercare, sbagliare, cadere, rialzarci e tornare. Per poi partire ancora, ognuno verso ciò che rende la vita degna di essere vissuta.