“Legami” e la Fede al Grest 2013

Il sussidio estivo Megalì – Il segreto della città sospesa mette al centro dell’attenzione di responsabili ed educatori il tema delle relazioni umane e dei “legami” tra le persone.

Nel 2013 le comunità cristiane, le parrocchie e i gruppi sono state invitate a vivere con impegno l’Anno della Fede indetto da papa Benedetto XVI con la lettera apostolica Porta fidei. La Chiesa italiana invita inoltre i credenti ad avere come riferimento pastorale le indicazioni contenute in Educare

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alla vita buona del Vangelo, cioè negli orientamenti pastorali della Conferenza Episcopale Italiana

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2010-2020.

A partire da questi due testi fondamentali, anche Megalì vuole contribuire a rendere più bella e gioiosa l’estate per tante persone. È importante ricordare che la “bellezza” e la “gioia” che caratterizzano il Grest nascono, oltre che da tante idee e suggerimenti, anche da momenti e da “spazi” interiori in cui sostare e contemplare, riflettere e discutere, allo scopo di “ri-motivare”, cioè di ri-pensare profondamente le azioni e ri-trovare entusiasmo per ri-mettersi insieme in cammino. L’animazione è sempre in invito a ripartire e coinvolge l’interiorità e le azioni.

E allora, iniziando un’esperienza di comunità come il Grest, cominciando l’avventura di Megalì che invita a riflettere sulle relazioni, cosa significa ripensare la fede? A che cosa ci si riferisce quando si parla di fede? Che cosa gli animatori, le famiglie, i bambini e i ragazzi sono invitati a fare nell’Anno della Fede?

A partire dall’avventura umana di Gesù ci si accorge che la “vita buona” del Vangelo non è possibile se non si vigila sulla qualità delle proprie relazioni e non ci si adopera per far crescere attorno a sé il rispetto per ogni persona. I contemporanei di Gesù erano colpiti dalla sua profonda umanità. Le sue parole e i suoi gesti esprimevano l’interesse per ogni situazione umana e il desiderio di prendersi cura delle persone facendosi carico delle loro sofferenze e delle loro paure.

Perciò, non si potrà realizzare alcuna vita “buona” se non si è disponibili all’ascolto, se non ci si fa attenti ai bisogni degli altri, se non si guarda con simpatia e solidarietà ad ogni essere umano. Proprio in quanto uomini e donne che vivono “nel” mondo, i cristiani non vivono la loro fede come fuga o come rifugio, bensì come un’esperienza che si innesta in alcuni fondamentali gesti umani, soprattutto sull’azione del “fidarsi”. >br>
La fede è innanzitutto un dono di Dio, di Colui che vuole stringere alleanza con noi, che entra in comunione con ogni essere umano.

Ma, d’altra parte, la fede è un’azione dell’uomo

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decide di “fare fede”, di dare fiducia, di affidarsi. Se l’iniziativa è di Dio, solo la risposta libera dell’uomo rende possibile la relazione e l’amicizia con il Signore e mette in atto il cammino della fede.

A pensarci bene è l’uomo stesso che per sua natura ha bisogno di credere: se non credessimo non saremmo esseri umani. La fede cristiana è possibile perché iscritta nella capacità e nel bisogno umano di fidarsi. Senza avere fiducia in qualcuno non si può crescere e vivere: un bambino cresce se si fida, un innamorato ama ed è riamato se si fida, la società nel suo insieme si sostiene perché basata sulla fiducia reciproca nei suoi stessi membri.
Allora l’Anno della Fede è l’occasione per “fidarci”, cioè per ri-animarci e ri-animare il desiderio di incontrare le persone e di tessere relazioni, di migliorare lo stile dei nostri rapporti e di perdonare, di essere solidali e di sostenere soprattutto chi è nel bisogno fisico e spirituale.

Come la fiducia tra le persone è soggetta ad alti e bassi, all’entusiasmo e alla delusione, così la fede: essa non è la conclusione di una dimostrazione razionale certissima, quanto piuttosto un affidamento, un desiderio profondo di accogliere ed essere accolti. Chi ha fede vive inevitabilmente anche momenti di dubbio e di fatica, ma si tratta di una sofferenza che lo rende solidale con tutti gli esseri umani e lo rende davvero disponibile ad accogliere e fidarsi del Dio-con-noi.

Chi ha fede, chi si fida, sta amando. La fede e l’amore sono inseparabili. Chi ama è obbligato a dare fiducia, a credere nell’altro. Ma allora, l’amore con cui riponiamo fiducia nell’altro, non è prerogativa solo dei cristiani. Tutti, infatti, per vivere una vita che abbia senso, sono chiamati ad amare: anche chi dubita, anche chi fatica a credere, anche chi non crede a Dio.

In occasione del Grest proviamo a pensare se l’appartenenza cristiana qualche volta non sia motivo di divisione: se per professare la fede non si ama… forse va ripensata la fede! E forse va ripensata ripartendo dai “fondamentali”, da ciò che ci rende persone umane: dalla fiducia tra le persone e dall’amore che tutti sperimentano e donano.

I “l-e-g-a-m-i” (da cui “M-e-g-a-l-ì”) tra le persone vanno curati. I cristiani sono chiamati ad essere “credenti” innanzitutto in questo senso. Buon Grest a tutti!

di Paolo Dall’Ò

A scuola di relazioni: gli animali e gli uomini

Per guardare alle relazioni e ai legami tra le persone in modo diverso, ecco un articolo che ci farà pensare e divertire un po’. Buona lettura e buon Grest!

TUTTO IL MONDO E’ PAESE
Un Somaro monarchico italiano
disse a un Ciuccio francese:
Felice te, che sei repubbricano!
Io, invece, devo sta’ sotto a un padrone
che me se succhia er sangue e che me carica
la groppa co’ le palle de cannone!
Propio nu’ je la

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fo, caro compagno!
Er peso è troppo forte in proporzione
de li torzi de broccolo che magno!
Spessissimo succede che me lagno,
ma quello se ne buggera e me sona
l’Inno reale mentre me bastona…

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Tutto er monno è paese:
disse er Ciuccio francese –
defatti puro el mio fa tale e quale,
ma invece de sonà l’Inno reale
canta la Marsijese…
(Trilussa, Musica)

La buttiamo in politica? Certo, chi vive nel Belpaese ci ha fatto l’abitudine. Se non son nazionali sono locali, mettiamoci pure qualche referendum qua e là, fatto sta che le tornate elettorali non finiscono mai. Appena smaltita la sbornia elettorale, ecco che già si profila all’orizzonte la prossima abbuffata. E allora accapigliamoci un pochino sul nulla delle fazioni, accaloriamoci pure sostenendo i colori guelfi che sono profondamente diversi da quelli ghibellini (e, diciamocelo francamente, migliori), indigniamoci nell’intimo per le scandalose dichiarazioni di tale tizio destrorso o di tal’altro mancino.
Ma no, no, no. Tutto da rifare. Questa rubrica parla di cose serie, via.
Le relazioni ad esempio. Allora tutti in carrozza, si parte. Vi sarà proposto un gioco, oggi, seguiteci.

La domanda fondamentale da porsi è:

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quanto desiderate che la relazione con il vostro animale domestico sia appagante, duratura, sempre nuova ogni giorno?

A. IL RAPPORTO TRA UMANO E ANIMALE
Nel rapporto uomo-animale, l’appagamento relazionale è correlato con:

    la libertà di espressione. Ogni soggetto – con coda o senza coda – coinvolto nella relazione deve poter godere della libertà di esprimere se stesso, di manifestare la

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    identità così com’è, con i suoi propri limiti e le proprie specificità. In concreto, ciò implica l’assenza di recinti – anche in senso figurato – o quanto meno la presenza di recinti molto ampi, all’interno dei quali l’individuo non si senta compresso, nei propri desideri espressivi, dalle aspettative e dai progetti dell’altro. Non ci resta che una strada aperta: quella di rimanere sempre disponibili a scoprire ed accettare l’altro.
    la libertà di scelta: con chi e quando entrare in relazione. Nessuno dei due partner – quello a due zampe e quello a quattro – si deve sentire obbligato a rapportarsi con l’altro. Quando e come entrare in relazione diventa una scelta libera, una scelta non addomesticata. Una decisione che non si compra e non

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    si baratta con forme più sottili di convincimento e di convenienza personale. In una parola un regalo. E davanti ad un regalo che si può fare se non ringraziare?

B. ADDESTRAMENTO O RELAZIONE
Secondo quanto sopra, la Relazione con l’animale domestico è l’esatto contrario dell’addestramento, il quale si riconosce da questi “segni particolari”

  1. CONDIZIONAMENTO dei comportamenti dell’animale, attraverso metodi che vanno dal semplice “Ti premio se fai questa cosa”, a tecniche come il clicker, fino a giungere a detestabili forme di pressione psicologica.
  2. ATTESA DELLA PERFORMANCE come obiettivo del rapporto: non mi interessi tu, mi interessa la prestazione che tu mi puoi dare (vincere una gara di bellezza, cacciare una lepre, saltare un ostacolo, tirare un carretto, e chi più ne ha più ne metta). Rintracciabile ad esempio nelle espressioni “Cane da guardia”, “bestia da soma”, “animale da compagnia”, “esemplare da concorso”
  3. PRECISIONE, cioè risposta puntuale
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    e omologata ad uno stimolo impartito. Inserisco “Tono di

    voce” e ottengo obbedienza. Inserisco “fischio” e ottengo “corsa”. Intendere l’animale come un computer – che a fronte di un input fornisce invariabilmente

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    un certo output – è forse frutto di questa stagione tecnologica, chissà…

  4. CONTROLLO: rigida progettazione della relazione. Detto in parole potabili, è quanto può succedere se non si accetta la diversità dell’altro. Fa rima con paura ed insicurezza personale.

Potremmo sinteticamente dire che se l’addestramento è una forma “intensiva” di rapporto con l’altro, la relazione è al contrario una modalità “estensiva”, che non esige obiettivi certi e tempi prestabiliti.
Bene. Ora pronti per il gioco? Avvertenze, posologia, effetti collaterali. Ai sensi della vigente normativa sulla sicurezza, siete caldamente invitati ad indossare i DPI (dispositivi di protezione individuale)

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prima dell’inizio del gioco, che potrebbe rivelarsi… dirompente.

  1. FASE 1 LA SCOPERTA. Nel paragrafo A, sottolineate tutte le parole come “animale”, “partner a quattro zampe”, “soggetto con coda” e simili.
  2. FASE 2 L’ESERCIZIO. Sostituite le parole sottolineate con espressioni del tipo “amico”, “persona”, “compagno/a”
  3. FASE 3 LA BOTTA SUI DENTI. Verificate il livello di libertà di espressione e di libertà di scelta che voi vivete nelle relazioni con gli altri umani (c.d. “bipedi glabri”)
  4. FASE 4 IL RILASSAMENTO. Scarichiamo ora la tensione accumulata: riferendovi al paragrafo B, divertitevi (ma senza esagerare) a coniare nuove espressioni come “Marito da 5000 al mese”, “Suocera da pasticcio domenicale”, “Amico da casa a Cortina”, “Figlia da 9 in pagella”, “Segretaria da quinta taglia” e via così.
  5. FASE 5 IL RITORNO. Adesso, zufolando la marsigliese o l’inno che più vi piace, tornate pure tranquilli alla vita di tutti i giorni.

di Carlo Bezze

Educatori… Amici, Maestri e Padri

di Giovanni Realdi

Tu sei mio amico?

Lo sappiamo bene: quando “chiediamo l’amicizia” su Facebook abbiamo la

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consapevolezza che questa parola – amicizia – non vuol dire esattamente quello che sembra. Molti adulti, presi, come spesso accade, dalla loro ansia di insegnare, rinfacciano ai giovani di perdere ore sul WEB con l’illusione di avere una vita sociale vera… E invece chiunque invia una “richiesta di amicizia” su FB, se non è così solo o ingenuo da non accorgersene, sa benissimo che quello è solo un contatto virtuale, una foto in più nel riquadro Friends, una bacheca in più da leggere ogni tanto. Del resto, basta proprio un’occhiata agli scambi di commenti: ti accorgi subito se le due persone che si scrivono hanno qualcosa in comune anche fuori, nella vita di ogni giorno. C’è un tono, un che di sottinteso, qualcosa di non-detto che ti comunica come ci sia davvero un bel po’ di tempo passato insieme, nelle aule di scuola o in vacanza.

facebook_animatori_grestIl popolare social network nacque proprio per aiutare a mantenere i contatti tra persone che già si conoscevano. Poi il mercato, l’economia, hanno costruito un enorme castello d’aria attorno a quella bella intuizione che oggi è diventata un’industria potentissima, grazie alla pubblicità e al tasto Like: quotidianamente milioni di clic comunicano ai server centrali, da qualche parte nel deserto statunitense, i nostri gusti e le nostre preferenze, convogliando poi sulle schermate dei nostri strumenti suggerimenti commerciali vicini al nostro mondo. O a quello che loro pensano sia il nostro mondo.

C’è un’esperienza che si impara solo da adolescenti, o poco prima, diciamo dai dieci/undici anni in poi. Appare per la prima volta attorno a quell’età e poi non ti molla più. No, non sono la sessualità e l’affettività – anche se il discorso vale anche per queste essenziali dimensioni. Sto parlando dell’esperienza del gruppo. Quando una persona, da adulta, partecipa in maniera continuativa al suo gruppo di calcetto, al club degli appassionati della bicicletta o al circolo della pesca – per esempio – non fa altro che continuare a cercare quell’esperienza unica, che ha vissuto nella sua giovinezza: far parte di un gruppo. Che sia il “muretto” in piazza, dove ci si ferma con gli scooter, che sia la compagnia del sabato sera o quella del mare, rivissuta per anni ogni estate quando ciascuno si stupisce di quanto gli altri siano cambiati, il gruppo è uno dei regali che porta con sé il periodo incasinatissimo ma fertile dell’adolescenza. Da allora in poi cercheremo sempre un gruppo.

L’uomo è “animale sociale” dicevano gli antichi pensatori: non può fare a meno di condividere con i proprio simili la propria esistenza. Certo: qualcuno preferisce la vita solitaria… Ma anche i più duri tra i bikers amano ritrovarsi dopo i chilometri mangiati in solitudine. L’amicizia – diceva il filosofo Epicuro – trascorre sulla terra annunziando a tutti noi di destarci per darci gioia l’un l’altro. Un fratello rimane tale per sempre, per via dello stesso DNA che abita i nostri corpi; rimane tale proprio perché non lo hai scelto e rimarrà tale – che lo si voglia o meno – anche se non vuoi più vederlo perché ti ha deluso: è il legame di sangue, indelebile a prescindere dalla nostra volontà. Un amico è invece una persona che scegliamo. Gli amici sono il primissimo e forse “più perfetto” esempio di gruppo che esista, il gruppo che noi abbiamo voluto e insieme dal quale siamo stati voluti, le persone che ci sanno leggere dentro e che capiamo al volo, senza parole, solo cogliendo l’espressione della loro faccia. L’amico non è chi la pensa come me, ma colui che quando ha ragione non me lo fa pesare; l’amico non è chi mi segue sempre, ma chi rimane con me quando tutti i codardi se ne sono andati; l’amico è chi è ironico con me, mai però a mie spese; l’amico è quello che mi dice le cose in faccia, anche se la sua parola è scomoda perfino per lui; l’amico è quello con cui ridere fino a quando la pancia ti fa male, con la torcia sotto le coperte; l’amico è quello con cui posso finalmente litigare, e azzuffarmi. Perché se ci siamo scelti, possiamo sempre sceglierci ancora.

Essere amici è la capacità di stare sospesi

Ma cosa rende amico l’amico? Di che cosa parliamo quando parliamo di amicizia? E poi, subito dopo, che cosa vuol dire che un educatore del GrEst può essere amico? Se guardiamo l’album interiore della nostra esistenza, sfogliando le immagini di quelle persone che hanno lasciato una traccia in noi, fermandoci su quei volti così cari, ognuno di noi può dare una sua personalissima definizione di amicizia. Ne suggerisco una, sapendo che è solo parziale, che coglierà uno degli aspetti della verità, non tutta intera.
Come accade che io e te diventiamo amici? Senza dubbio per prima parla la mia natura di animale: come qualsiasi essere mongolfiere_grest_crevivente, vivo nella mia pelle la difficoltà della solitudine, la paura di affrontare le cose da solo. E per gli esseri umani, che vengono accompagnati dagli adulti per un tempo maggiore di quasi tutte le specie animali, il senso di poter essere abbandonati è determinante. Per questo c’è la famiglia, gli adulti che mi hanno voluto alla vita. Ma ad un certo punto essi non bastano più. Il mio bisogno di sicurezza non ha l’ultima parola: esco dal nido, perché altrettanto forte è il bisogno di esplorare la realtà, di andarle incontro. E il momento della sperimentazione per eccellenza, nel quale per capire chi sono metto alla prova i miei limiti, avviene nell’adolescenza. Proprio qui accade una cosa misteriosa: sto cercando (anche senza saperlo!) con tutte le mie forze di comprendere la mia identità e ad un certo punto – meraviglia! – scopro di potermi riconoscere in te, di trovare in te uno specchio di quello che sono o potrei essere. Avviene un clic dentro di me, uno scatto: il meccanismo del riconoscimento. Pensavo di esser da solo e di dover aver a che fare solo con adulti capaci di dirmi unicamente quel che devo fare… E invece trovo un essere come me, imperfetto, anche lui incasinato, ma di fronte al quale finalmente posso essere esattamente quello che sono! Noi siamo simili, ci sentiamo tali.

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Può essere un’uguale passione (lo sport, la musica), può essere un medesimo luogo (la scuola, il gruppo in parrocchia), una storia simile o solo una parola che detta da te, per me è familiare, ovvia. E nasce l’amicizia.
Qual è il nucleo profondo di questa alleanza? Il fatto che tu mi accetti per come sono. Non poni nessuna condizione: ti vado bene non se faccio/dico/sono qualcosa, ma unicamente per il fatto di essere Io. Quante volte, di fronte agli adulti, dobbiamo accettare le loro condizioni? Se sei promosso… Se fai il bravo… Se mi aiuti a sparecchiare… Se non fai capricci… Se, se, se. E’ la condizione. Vado bene… Se. Al contrario con te vado bene comunque! Tu mi sei amico perché non devo scendere a patti né con te né con me stesso: posso lasciarmi essere. Certo, un amico però non è incapace di pensare o di vedere come

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stanno andando le cose. Mi capiterà qualcosa che non gli/le piace, qualcosa che lo/la trova in disaccordo… Ma l’amicizia gli/le permetterà di separare quello che faccio (che può essere sciocco, inutile o solo inefficace) da quel che sono. Ecco: sospenderà il giudizio (e perfino la sua rabbia, che è legittima) pur di tenerti con lui. Questa accettazione positiva senza condizioni non è solo una cosa bella, ma è perfino utile. Perché? Perché solo se sperimento cosa vivo dentro e che cosa desidero (le mie intuizioni e i miei bisogni), allora un poco alla volta inizierò a capire chi sono. Ecco perché ci sentiamo veramente ascoltati solo dagli amici e viceversa solo gli amici veri possono davvero ascoltare.
Ma l’esperienza di toccare con mano, passo dopo passo, chi siamo è essenziale per chiunque, anche per coloro che mi sono stati affidati al GrEst. Un animatore non potrà mai diventare in senso stretto amico di un ragazzo, ma potrà vivere, agire, comportarsi come se lo fosse. E cioè? Senza giudicare il ragazzo o la ragazza, facendo attenzione a come si rivolge a loro, a quali parole usa, in modo da non diventare uno dei tanti adulti sbrigativi e giudicanti. Questo non significa che i ragazzi al GrEst possano fare quel che vogliono! Ci saranno delle regole e dei comportamenti considerati inefficaci o dannosi per l’attività insieme. E questi comportamenti devono essere rifiutati (e perfino sanzionati). Ma non le persone che li agiscono. L’amico è colui che si mette d’impegno per capire perché ti sei comportato “male”: non lo giustificherà, ma cercherete insieme di capire che cosa è successo. Allo stesso modo, l’educatore non tollera alcuni comportamenti, ma nel medesimo tempo non esclude nessuno. Perché, a guardar bene, i bambini cattivi non esistono… Esistono solo bambini soli.

Quando l’allievo è pronto compare il maestro

L’educatore è amico, nel senso che abbiamo visto, quando è capace di non mettere il proprio giudizio tra se stesso e il ragazzo. Questo significa comportarsi da amici, pur ricordando che, tra i due, esiste quella che si chiama una asimmetria. Un disegno asimmetrico – per esempio un volto di Picasso – è tale quando, diversamente dal volto ritratto di fronte in una fotografia, non posso sovrapporre la parte destra a quella sinistra, o viceversa. Non c’è piena corrispondenza tra i due versanti, le due metà non combaciano, non c’è una vera parità, ma solo una certa somiglianza. Dire che tra educatore ed educato non c’è parità non vuol dire tuttavia che uno è più importante dell’altro. Questo è un passaggio delicato, perché siamo convinti, spesso senza esserne coscienti, che l’adulto abbia sempre qualcosa in più rispetto al più giovane e oggi ancora le nostre “agenzie educative” (famiglia, scuola, parrocchia) sono centrate sugli adulti invece che sui piccoli che ospitano.
E infatti, qualcuno dirà: senza un gruppo di animatori che si mette in gioco, come è possibile costruire un GrEst? Certo, sono essenziali per realizzarlo, per farlo diventare qualcosa di concreto. Eppure senza i ragazzi non avrebbe senso nemmeno la semplice idea di GrEst! Senza i ragazzi, non esistono insegnanti, capiscout, allenatori, catechisti… e nemmeno gli animatori servono. Chi è più importante, allora? Non c’è. Il GrEst è il risultato di un incontro tra un gruppo di adulti (o quasi) che scelgono di dare il proprio tempo ad un gruppo di ragazzi che di loro possono fidarsi. Non sta qui dunque il senso dell’asimmetria.
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a come funziona un’attività con i ragazzi, emerge subito un dato certo, sicuro: un GrEst è bello quando è organizzato al meglio. Qualcuno, prima di aprire il sipario, si è seduto, ha preso in mano carta e penna, si è dotato di strumenti pedagogici (come il libretto che state leggendo), di mezzi tecnici (dai pennarelli alla disposizione degli spazi), ha discusso con gli altri e stilato un progetto. Ecco: il progetto. Etty Hillesum era poco più vecchia di voi, quando il 3 luglio 1943 scriveva sul suo Diario: «Quando un ragno tesse la sua tela, non lancia forse i fili principali davanti a sé e ci si arrampica poi sopra? La strada principale della mia vita è tracciata per un tratto davanti a me ma arriva già in un altro mondo». Certo, la sfida a cui lei stava pensando era di un altro tipo, ma le sue parole ci suggeriscono una cosa essenziale. Questa tela di ragno, questa costruzione appena visibile, e solo con la luce giusta, questo intreccio di fili è il progetto: non sto parlando della scansione dei giorni, della scaletta delle attività o dei materiali da predisporre per averli a portata di mano… Questi elementi costituiscono il programma. Il progetto è una cosa diversa: è il senso che personalmente – come individuo che dona il suo tempo – voglio dare a questa nostra azione comune, è il significato che insieme – come équipe di animatori – possiamo cercare per l’attività che stiamo intraprendendo.
Mentre il programma è una lista precisa di cose da fare (se voglio fare un viaggio devo controllare le gomme, mettere la benzina, ricordare i bagagli, scegliere l’orario di partenza e darmi delle tappe), il progetto è lo sguardo alzato verso il prossimo futuro: ma io, mettendomi in macchina, che cosa voglio ottenere? Una vacanza? Un incontro? Riposo? Emozioni? Nuovi luoghi? Nuove persone?
Possiamo invitare il gruppo di ragazzi ad entrare nel nostro programma, coinvolgendoli con l’aggancio narrativo, entusiasmandoli con le danze e le canzoni, facendo trovar loro pronti giochi e attività. Ma il senso complessivo della nostra esperienza è una questione che noi dobbiamo aver discusso e compreso prima di partire. Questa operazione – questa domanda importante – possiamo farla solo noi in quanto educatori. Qui sta la asimmetria educativa: chi sta crescendo – il bimbo delle elementari, la ragazzina di prima media – non ha né le possibilità, né il desiderio di capire dove sta andando… Eppure si affida a noi, e lo fa proprio perché noi lo sappiamo. O dovremmo saperlo. Perché la sfida dell’esser maestri sta proprio qui. Il maestro non è solo quello che conosce alcune cose perché le ha studiate, memorizzate, sviscerate; è colui che si è posto radicalmente il problema di come parlare di queste cose ai suoi alunni e del senso che ha per ciascuno di essi impararle. L’animatore di conseguenza è maestro se si è concesso il tempo e l’energia per progettare (e non solo programmare) il GrEst. L’animatore e il suo gruppo si fanno maestri quando si fermano e si domandano: dove desidero andare con questi ragazzi?
La studiosa americana Alison Gopnik afferma: «possiamo regolare un aspetto molto importante della vita adulta dei nostri figli: il loro ricordo, che contemplerà asili nido immersi nel verde, picnic e genitori amorevoli. Non c’è modo di garantire loro un futuro felice – be’, almeno possiamo agire sulle premesse, provando a regalare loro un passato felice». Ci offre una riflessione estremamente realista: non possiamo calcolare e prevedere con esattezza tutti gli aspetti brutti della vita dei piccoli che ci sono affidati; non possiamo essere certi che il loro futuro, anche la settimana che si sta aprendo di fronte a noi, possa essere totalmente e pienamente positiva. O meglio, possiamo presumere di farlo, ma solo costruendo una sorta di “campana di vetro” che li

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protegga da tutto e da tutti, soffocandoli. Mi vengono in mente quei genitori che portano sì i figli al parco-giochi, ma poi – seduti sulla panchina – impegnano il loro tempo a gridare di non giocare con la sabbia perché ci si sporca, di non correre perché si suda, di non spingere

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l’altalena perché ci si fa male, di non prendere le macchinine agli altri bimbi perché poi si litiga… Una gabbia. Che cosa possiamo fare invece? La Gopnik suggerisce questo: predisponete le cose in modo che – una volta vissuta l’esperienza – essa possa costituire un ricordo felice nella memoria di queste piccole persone. Pensate alla soddisfazione di incontrare, tra qualche anno, quello che una volta era un bimbo del GrEst e che si ricorda ancora i giorni passati con voi!
La direzione del cammino, il progetto, è quindi questa: tentare il tutto per tutto affinché si possa vivere un’esperienza pienamente felice. E per farlo, c’è solo un modo: costruire un ambiente, un’attività, un programma nei quali voi stessi possiate essere felici insieme ai ragazzi. La vostra gioia non è un’opzione secondaria, una cosa che “se c’è meglio, se no pazienza”! Quello che potete cercare non è tanto un modo per far felici gli altri, ma una relazione felice, un modo per essere felici insieme agli altri. Quando il ragazzo leggerà nei vostri occhi l’impegno per farlo sentire al primo posto e la gioia di stare con lui, allora avrà scoperto un maestro.

Lasciare a casa gli “amiconi”

Se l’educatore-amico è colui che non giudica, l’educatore-maestro è colui che, grazie al non giudizio, mette al centro del suo impegno la costruzione di una relazione significativa. E’ come se portasse sempre con sé questo messaggio per la ragazza o il ragazzo che ha di fronte: tu sei al primo posto e noi siamo assieme, su di me puoi sempre contare. L’amico si rivela maestro e il maestro nasconde un amico. Ma attenzione… Mai un “amicone”! Vediamo cosa significa. La differenza essenziale tra educatore ed educato – ciò che abbiamo chiamato asimmetria – non si traduce in un “peso” che i ragazzi devono portare (per esempio nel fatto che hanno il dovere di ascoltare quanto l’adulto dice), quanto piuttosto in una responsabilità per l’animatore. Colui che si assume questo ruolo deve diventare consapevole che le persone-in-crescita che ha di fronte stanno sperimentando tutto di sé e non saranno mai quello che egli desidera siano. Dovrebbero ascoltare l’adulto, ma non sempre lo faranno; dovrebbero divertirsi con le attività per loro pensate, ma spesso sembreranno indifferenti; dovrebbero amare i giochi in gruppo, ma talvolta preferiranno stare per conto proprio; dovrebbero cantare, ma si riveleranno timidi; dovrebbero essere scattanti e pronti, e invece saranno imbranati e impacciati. Spesso reagiranno con rabbia, con impazienza, con mille pretese… Naturalmente questa lista è ipotetica e forse non si avvererà nemmeno in parte: il senso è quello di indirizzare la vostra attenzione sul fatto che il lavoro educativo non è mai, in pratica, quello che immaginiamo in teoria. E perché? Perché c’è un salto abissale tra quello che abbiamo in mente sia il dover essere delle cose e delle persone e quello che invece sono in realtà le cose e le persone. L’educatore-maestro è colui che non si fa intimidire da questo salto, ma ci sta dentro. Al contrario, chi non riesce a sopportarlo, pur di ricevere soddisfazione dalla propria attività, “scende a patti” con i ragazzi e inizia a… corteggiarli. Che cosa volete che facciamo? Cosa vi piacerebbe? Preferite continuare il gioco invece di proseguire con le tappe dell’attività? Desiderate prolungare la pausa-merenda? Sono tutte domande lecite, ma solo in fase di progettazione! L’educatore non può aspettare dal gruppo l’indicazione della strada da prendere… Non può tenersi buoni i ragazzi facendo quanto loro desiderano fare sempre e comunque. La solidità del maestro sta nel saper guidare l’esperienza. Può senza dubbio immaginare un’attività che, al proprio interno, preveda la condivisione delle decisioni con i ragazzi; può cioè pensare a momenti di co-progettazione. Ma deve al contempo tenere in mano la situazione.
C’è anche un altro modo di rivelarsi un educatore-amicone: è quello di affrontare il gioco come se egli fosse un ragazzo di otto, dieci, dodici anni. Se l’agonismo, la sfida per arrivare primi, l’energia per tagliare il traguardo sono ingredienti essenziali per un gioco divertente, l’educatore-maestro deve stare nello stesso momento dentro questa dinamica (perché anche lui può divertirsi) e fuori da essa: un ragazzo che gareggia può non guardare in faccia nessuno, ma deve stare alle regole; un bambino trascinato nel vortice del gioco può diventare spericolato, ma non deve far male a sé e agli altri. Chi potrà vigilare sulla meravigliosa indisciplina di questi minuscoli tornado? Solo chi può anche rinunciare a rimanerne incastrato, chi vede le cose anche da fuori, perché tiene presente il senso complessivo del gioco. In questo modo l’educatore-amico-e-maestro si rivela persino… un rompiscatole, un guastafeste! In altre parole, colui che pone un limite. In questo, egli diventa anche padre.

L’educatore è… un papà “strabico”

Un educatore-amico per questo non torna ad essere dodicenne… Un educatore-maestro per questo non diventa un rigido tutore dell’ordine. Ricordiamo ancora un particolare importante: si tratta di agire come se si fosse amici, come se si fosse maestri. Questo “come se” è la fatica dell’educazione: non saremo mai amici dei nostri ragazzi, ma possiamo attendere che loro ci sentano come tali; non potremo mai pretendere di insegnare loro nulla, di esser loro maestri, ma possiamo lavorare affinché loro stessi riconoscano in noi questo ruolo. E’ curiosa questa dinamica: sembra che l’essenziale non sia il fare qualcosa, quanto piuttosto il “lasciar essere” queste piccole persone. Questo segna la differenza abissale tra addestrare ed educare, tra il lavoro faticoso e indefesso di un artista del circo che vuole indurre un orso o una tigre a far qualcosa di spettacolare, e la pazienza coraggiosa e pregna di speranza di chi accompagna una persona nella sua crescita, fosse solo per il periodo – breve se messo a confronto con la vita – di un GrEst.
Spesso si ritiene che l’azione del prendersi cura di qualcuno significhi dare una risposta efficace a tutti i suoi bisogni e quindi proteggere questa creatura di fronte alle difficoltà delle cose di ogni giorno. Senza dubbio questo è ciò che fa la madre, da subito: se prende sul serio la vita che si sta formando nel suo ventre, inizierà ad aver cura di essa dandosi delle regole di comportamento, delle abitudine sane. Poi, quando la bimba o il bimbo sono nati, si adopererà per comprendere il loro linguaggio “segreto”, fatto di pianti e di urla, di smorfie e strani gridolini: con l’allenamento, arriverà a decifrare la richiesta di cibo, di sonno, di pulizia. E poco più oltre, quando inizia a delinearsi il linguaggio, i desideri di gioco, di caramelle, di parco-giochi… Sino a quando il figlio avrà imparato un vocabolario abbastanza ampio da consentirgli di dire quello di cui ha bisogno.
Tutto questo incredibile laboratorio educativo può accadere solo grazie alla strettissima relazione tra la madre e il suo nato. Pensate: devono passare alcuni mesi perché il bambino si “renda conto” di non essere più parte del corpo materno, ma individuo a se stante!
Questo laboratorio si chiama legame simbiotico: la “simbiosi” è una unità strettissima, una comunione vitale, importantissima per la madre, ma ancor più per la sua creatura, perché senza di essa non potrebbe sopravvivere. La cura materna (ma che può essere interpretata anche da figure maschili) è caratterizzata dalla risposta costante ai bisogni. Nel pensare un’attività soddisfacente per un gruppo di ragazzi si è senza dubbio anche “madri”: si tratta infatti di intuire bisogni e necessità, desideri e aspettative, e soddisfarli al meglio.
Ma questo non basta. Se infatti prevale sempre e solo il legame simbiotico viene costruita – spesso senza volerlo! – quella “campana di vetro” di cui abbiamo parlato: una protezione totale, un argine contro gli estranei, una cintura di sicurezza… Che diventano però un ambiente troppo chiuso per consentire alla persona di esplorare tutte le sue possibilità. Ecco perché, nella dinamica naturale di ogni gruppo famigliare, ad un certo punto è necessaria una figura paterna. Che cosa è il padre? Anche in questo caso non s’intende solo e sempre un individuo di sesso maschile, quanto piuttosto una funzione, un ruolo. Il padre è colui che rappresenta l’estraneo, colui che senza distruggerla rompe la simbiosi: il neonato, abituato al calore e all’odore materni, impara in braccio al padre un altro odore e un altro calore, sperimenta per la prima volta che “c’è qualcosa là fuori”. Il padre è protagonista di un legame creativo. Avete mai notato che i papà sollevano e tengono in braccio i figli in maniera diversa dalle mamme? Gli studi dello psicologo Luigi Zoja ci rivelano una cosa sorprendente: il modo che un padre ha di tenere il figlio è – diversamente da quello protettivo materno – aperto verso l’esterno, sbilanciato verso la scoperta del mondo. Proiettato verso nuove cose. Che cosa vuol dire allora che l’educatore può essere anche padre dei ragazzi a lui affidati? Egli non tralascerà la necessaria protezione per loro, ma nello stesso tempo sarà capace di permetter loro di sperimentare le cose, il mondo. Non li chiuderà in una casa dorata, in un paese delle coccole o dei balocchi, perché – a guardar bene le cose – la vita non è sempre una casa dorata o un paese accogliente e innocuo. L’educatore-padre è metaforicamente affetto da “strabismo”: tiene un occhio sul ragazzo e l’altro sul mondo, guarda ciò che il ragazzo è e nello stesso tempo ciò che egli può diventare. Non si accontenta di risolvere i suoi bisogni immediati (una bella attività, un gioco coinvolgente, una canzone invitante), perché a lui interessa soprattutto quello che la ragazza o il ragazzo può scoprire di sé e ancora non conosce. L’educatore-padre sa che non sta facendo tutto questo per la propria soddisfazione, per trattenere a sé i ragazzi, ma per permettere loro di andarsene sulle proprie gambe. Avete mai pensato che, in fondo, l’animazione di un GrEst non è – tecnicamente – molto lontana dall’animazione turistica? E cosa invece la rende del tutto differente? Che cosa fa di un animatore l’essere anche educatore, se non la cura per ciò che il ragazzo o la ragazza sarà dopo, fuori, lontano dal GrEst?

I fili tirati

Guardiamo al sentiero appena percorso. Le domande che ho lanciato lo hanno interrotto e, in fondo, le cose non possono andare diversamente, perché l’ultima parola sta a voi. La base di partenza è l’amicizia, questa parola così importante ma anche carica di ambiguità: talvolta capita di dirci (e più faticosamente di dire) “pensavo fossi un amico”… Accade che c’è un vero e proprio investimento sull’altra persona, o meglio sulla relazione che si può stabilire tra noi e lei. Questo ponte gettato tra due individui può diventare un’alleanza, cioè un’unione che si riconosce da un segno distintivo: la lealtà nei comportamenti. Sarete riconosciuti amici dai ragazzi quando sarete leali con loro, negli episodi divertenti e in quelli antipatici.
Esser leali vuol dire rimanere solidi, non tradire la fiducia. E lo fa chi non fa finta. Se è vero che, come diceva Forrest «stupido è chi stupido fa», è altrettanto vero che “leale è chi leale è”. Ci comportiamo da persone degne di fiducia, da riferimento certo, solo se abbiamo trovato prima di tutto un modo per essere leali con noi stessi. Che cosa vuol dire? Che abbiamo chiesto, a noi stessi per prima cosa e poi al nostro gruppo, di comprendere la direzione del cammino che vogliamo fare. Ma io, perché son qui a far l’animatore? Ma noi, che senso diamo al nostro servizio? Se questa domanda accade, avremo l’onore di esser guardati come maestri.
E allora, qual è il fine ultimo? Non vi sembra curioso che il nome che diamo a Dio, grazie all’Evangelo, sia proprio Padre, Abbà, papà? Il padre, che è maestro e amico, è colui che spalanca le porte della casa e ci lascia andare, cercare, sbagliare, cadere, rialzarci e tornare. Per poi partire ancora, ognuno verso ciò che rende la vita degna di essere vissuta.

Animatori, cioè educatori

di Giuseppe Mari
Professore ordinario di Pedagogia Generale
Università Cattolica del Sacro Cuore

L’esperienza dei Grest è tra le più rilevanti dell’animazione estiva praticata nel nostro Paese in favore dei più giovani. Ogni anno migliaia di ragazzi e adolescenti sono introdotti in momenti aggregativi e percorsi di crescita da centinaia di animatori. Questo breve intervento intende rispondere a due esigenze: anzitutto focalizzare il ruolo dell’animatore come educatore proponendo il riconoscimento dell’originalità dell’atto educativo a coloro che sono investiti della responsabilità di guidare i più giovani; inoltre prendere spunto dalla Strenna del Rettor Maggiore per offrire alcune indicazioni concrete.

1. Animazione e sfida educativa
L’«emergenza educativa», su cui Benedetto XVI ha attirato l’attenzione in un intervento (Lettera alla diocesi di Roma sul compito urgente dell’educazione, 21/1/2008) che merita di essere letto da tutti gli educatori, è talmente evidente che non richiede particolari spiegazioni sul piano descrittivo. Tutti siamo impressionati da un fatto inquietante: che la generazione più istruita e informata della

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storia faccia tanta fatica a evitare condotte nocive per sé e per gli altri. Piuttosto merita praticare un approfondimento volto a far emergere i motivi soggiacenti a questa situazione. Il Papa centra con chiarezza il problema quando afferma: «Cari fratelli e sorelle di Roma, a questo punto vorrei dirvi una parola molto semplice: Non temete! Tutte queste difficoltà, infatti, non sono insormontabili. Sono piuttosto, per così dire, il rovescio della medaglia di quel dono grande e prezioso che è la nostra libertà, con la responsabilità che giustamente l’accompagna».

Queste parole hanno un duplice merito. Anzitutto intercettano il senso di disorientamento e sconforto da cui oggi sono presi non infrequentemente gli educatori: si pongono quindi in modo realistico di fronte alla sfida di educare. Inoltre – questo, a mio avviso, è il punto – identificano questa stessa sfida come «sfida della libertà» ossia fanno uscire l’educazione sia dalla genericità di una relazione qualunque (della serie: «Basta stare con i ragazzi

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per educarli») sia dalla identificazione unilaterale dell’educazione con il solo apprendimento oppure con la sola socializzazione. Dal momento che l’educazione riguarda solamente l’essere umano (gli animali, al massimo, si possono addestrare), la sua identità specifica va cercata in ciò che connota l’uomo rispetto agli altri viventi dotati di corpo ossia la libertà.

Che cosa significa essere liberi? Essenzialmente subire – come ogni altro vivente – il condizionamento ambientale, ma non esserne necessariamente determinati. Facciamo un esempio. Sia la bestia sia l’uomo che hanno fame cercano il cibo, ma – a differenza degli altri animali – l’essere umano, se ha una ragione per farlo, è in grado di rimandare la soddisfazione del bisogno e, al limite, di estinguerla. Benedetto XVI, ricordandoci questo, ci invita a evitare le semplificazioni e soprattutto a non svalutare la pratica educativa riducendola solo ad una delle sue componenti.

O l’educazione riguarda la conquista della moralità oppure non riguarda nulla, sembra dirci il Papa e i fatti gli danno ragione. Chi può negare che ragazzi, adolescenti e giovani oggi hanno ampio accesso alla cultura e praticano disinvoltamente la socializzazione? I risultati però sono davanti agli occhi di tutti: evidentemente i conti non tornano. Del resto, la nostra pratica educativa sembra oscillare dall’eccesso cognitivo (basti pensare al continuo, talvolta puramente retorico, richiamo dei valori che infatti identificano il riconoscimento intellettuale del bene) a quello ludico. La sfida è un’altra: agire bene ossia praticare la libertà come la capacità di scegliere il bene da se stessi e senza costrizione – quella che Agostino chiama «grande libertà» distinguendola dal puro arbitrio ossia dalla semplice facoltà di scegliere tra alternative, la «piccola libertà» –.

Sappiamo come l’animazione abbia caratteristiche originali rispetto all’educazione, però non possiamo nasconderci una cosa: se veramente (e tutti ne siamo convinti) c’è una «emergenza» educativa, non ci si può nascondere dietro ai «distinguo», quello che c’è in gioco è troppo grande e decisivo per sottrarsi alla responsabilità di dare un contributo «educativo» alla sfida. Questo significa che non ci si può consegnare a dinamiche generiche di aggregazione oppure intrattenimento. In quello che facciamo, anche come animatori, dobbiamo chiederci: «Stiamo operando perché coloro che ci sono affidati siano maggiormente in grado di agire bene cioè di praticare

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la virtù?». Questa parola – «virtù» – che è stata emarginata nel vocabolario educativo con eccessiva disinvoltura, va rimessa al centro perché riguarda – precisamente – la sfida della libertà, concretamente espressa nei contesti di vita. Può apparire un discorso astratto; in realtà, è concreto nel senso migliore del termine ossia di una pratica che scaturisce dal pensiero e di un pensiero che si traduce in pratica. Faccio alcuni esempi prima di passare al secondo ed ultimo punto di questa riflessione.

Se la sfida è anzitutto etica, allora gli animatori si devono chiedere se, con il loro comportamento, danno un esempio coerente di

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ciò a cui devono richiamare coloro che sono a loro affidati. Si presentano ai ragazzi con un contegno sufficientemente controllato? Non basta star bene con quelli che animiamo, dobbiamo anche chiederci che cosa esprimiamo, di fronte a loro, con gli atteggiamenti, con le parole, con le azioni, Se, ad esempio, gli animatori adottano un linguaggio volgare, come possono favorire nei più giovani il controllo di sé cioè dei propri comportamenti, che è essenziale se in ballo c’è la sfida della libertà? Occorre, infatti, tenere presente che la libertà non costituisce solo una caratteristica dell’essere umano, ma anche un compito. In pratica, tutti noi impariamo ad essere liberi se diventiamo capaci di porre un freno alle nostre pulsioni, ai nostri bisogni, ai nostri desideri… L’animatore che non testimonia la fedeltà alle regole nel gioco oppure che diventa complice con quelli che sta animando nel tenere comportamenti impropri (non rispettare qualcuno, abusare di qualcosa…), semplicemente non li educa, ma – così facendo – non contribuisce a raccogliere la sfida della emergenza educativa.

Il ruolo dell’educatore – in altri termini – domanda maturità e responsabilità, nel senso di tenere una condotta coerente con la funzione di guida che lo riguarda, tenuto conto del fatto che i più giovani guardano all’educatore come a un «modello». Non

dobbiamo cedere alla facile gratificazione conseguente all’assecondamento del «così fanno tutti»: il conformismo è la tomba della libertà. Questo non significa che occorre essere anticonformisti (tenuto conto che molto spesso questo

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atteggiamento nasconde solo il narcisismo di chi vuole distinguersi per esibizionismo): bisogna sapere tenere un comportamento coerente con la dignità della persona che siamo, amata singolarmente da Dio, evitando di adattarci alle forme di «svalutazione» della persona, diffuse oggi come sempre. Quest’ultima osservazione ci introduce nella prospettiva dell’animazione «cristiana», quindi della Strenna che il Rettor Maggiore ha offerto per orientare l’impegno di animazione.

2. «Rallegratevi nel Signore sempre…»

Il richiamo alla gioia è uno dei tratti tipici della spiritualità cristiana e salesiana. La Strenna del Rettor Maggiore – che si ispira a Fil 4,4 – suona così nella sua completezza: «”Rallegratevi nel Signore sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi”. Come Don Bosco educatore, offriamo ai giovani il Vangelo della gioia, attraverso la pedagogia della bontà». Ora chiediamoci: «Quali sono i presupposti affinché possiamo raccogliere l’invito e tradurlo nel nostro concreto impegno di animazione?».

L’invito di Paolo ai Filippesi è chiaro: «Rallegratevi nel Signore sempre». Che cosa richiede per essere fatto proprio: anzitutto conoscere il Signore. L’animazione di un Grest, che si svolga all’interno di un contesto cristiano, non può essere generica. Certamente si tratta di raggiungere tutti, soprattutto nell’attuale contesto pluralista e complesso, ma il punto di vista da cui ci si pone questo compito deve essere onesto, cioè non nascondere la matrice cristiana dell’animazione. Se non si conosce il Signore, com’è possibile «rallegrarsi» in Lui? Non utilizzo la maiuscola a caso. Per i cristiani, Gesù è il «Signore». Non è un generico compagno di giochi né solo un personaggio che ha compiuto gesti straordinari e che sa toccare straordinariamente il cuore e la mente di coloro che lo incontrano: è Dio. Questo domanda la consapevolezza – da parte dell’animatore – del fatto che non può trasmettere nulla a coloro che gli sono affidati, se non è coinvolto in un rapporto personale con Dio in Cristo. Ne segue l’esigenza di un attento esame di coscienza in merito alla pratica cristiana di ognuno che passa attraverso la S. Messa domenicale, l’accostamento ai Sacramenti (Eucarestia e Riconciliazione soprattutto), la preghiera quotidiana e la pratica della carità nei diversi contesti in cui si agisce. Se l’animatore non ha una vita di fede coerente con la sua appartenenza alla Chiesa di Cristo, come può testimoniare di rallegrarsi nel Signore?

Il Rettor Maggiore adotta questo richiamo alla luce dell’esperienza di Don Bosco ossia di un sacerdote che ha vissuto con la massima intensità (per questo la Chiesa lo venera come santo) il rapporto con Cristo. Anche in questo caso, è importante interrogarsi circa la conoscenza che si ha della figura di Giovanni Bosco. Essere animatori, quindi, significa ricevere una formazione che anzitutto non riguarda genericamente le tecniche di animazione, ma la fede cristiana e l’esperienza salesiana. Solo a queste condizioni diventa possibile disporsi seriamente a offrire il «Vangelo della gioia, attraverso la pedagogia della bontà». Senza una preparazione specifica, nella quale l’animatore accetta di farsi provocare come credente, procedendo a un serio esame di coscienza, la bontà diventa un «buonismo» insulso cioè qualunquista e il «Vangelo della gioia» cessa di essere collegato all’incontro con Cristo per trasformarsi in divertimento banale. L’animazione è una cosa seria. Questo non significa che sia noiosa, ma che costituisce un impegno preciso. Si tratta infatti di un servizio cioè di qualcosa che facciamo anzitutto non per soddisfare il nostro bisogno di gratificazione, ma per trasmettere ad altri il bene che abbiamo a nostra volta ricevuto.