di Giuseppe Mari
Professore ordinario di Pedagogia Generale
Università Cattolica del Sacro Cuore
1. Animazione e sfida educativa
L'«emergenza educativa», su cui Benedetto XVI ha attirato l'attenzione in un intervento (Lettera alla diocesi di Roma sul compito urgente dell’educazione, 21/1/2008) che merita di essere letto da tutti gli educatori, è talmente evidente che non richiede particolari spiegazioni sul piano descrittivo. Tutti siamo impressionati da un fatto inquietante: che la generazione più istruita e informata della
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storia faccia tanta fatica a evitare condotte nocive per sé e per gli altri. Piuttosto merita praticare un approfondimento volto a far emergere i motivi soggiacenti a questa situazione. Il Papa centra con chiarezza il problema quando afferma: «Cari fratelli e sorelle di Roma, a questo punto vorrei dirvi una parola molto semplice: Non temete! Tutte queste difficoltà, infatti, non sono insormontabili. Sono piuttosto, per così dire, il rovescio della medaglia di quel dono grande e prezioso che è la nostra libertà, con la responsabilità che giustamente l'accompagna».Queste parole hanno un duplice merito. Anzitutto intercettano il senso di disorientamento e sconforto da cui oggi sono presi non infrequentemente gli educatori: si pongono quindi in modo realistico di fronte alla sfida di educare. Inoltre – questo, a mio avviso, è il punto – identificano questa stessa sfida come «sfida della libertà» ossia fanno uscire l'educazione sia dalla genericità di una relazione qualunque (della serie: «Basta stare con i ragazzi
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per educarli») sia dalla identificazione unilaterale dell'educazione con il solo apprendimento oppure con la sola socializzazione. Dal momento che l'educazione riguarda solamente l'essere umano (gli animali, al massimo, si possono addestrare), la sua identità specifica va cercata in ciò che connota l'uomo rispetto agli altri viventi dotati di corpo ossia la libertà. Che cosa significa essere liberi? Essenzialmente subire – come ogni altro vivente – il condizionamento ambientale, ma non esserne necessariamente determinati. Facciamo un esempio. Sia la bestia sia l'uomo che hanno fame cercano il cibo, ma – a differenza degli altri animali – l'essere umano, se ha una ragione per farlo, è in grado di rimandare la soddisfazione del bisogno e, al limite, di estinguerla. Benedetto XVI, ricordandoci questo, ci invita a evitare le semplificazioni e soprattutto a non svalutare la pratica educativa riducendola solo ad una delle sue componenti.
O l'educazione riguarda la conquista della moralità oppure non riguarda nulla, sembra dirci il Papa e i fatti gli danno ragione. Chi può negare che ragazzi, adolescenti e giovani oggi hanno ampio accesso alla cultura e praticano disinvoltamente la socializzazione? I risultati però sono davanti agli occhi di tutti: evidentemente i conti non tornano. Del resto, la nostra pratica educativa sembra oscillare dall'eccesso cognitivo (basti pensare al continuo, talvolta puramente retorico, richiamo dei valori che infatti identificano il riconoscimento intellettuale del bene) a quello ludico. La sfida è un'altra: agire bene ossia praticare la libertà come la capacità di scegliere il bene da se stessi e senza costrizione – quella che Agostino chiama «grande libertà» distinguendola dal puro arbitrio ossia dalla semplice facoltà di scegliere tra alternative, la «piccola libertà» –.
Sappiamo come l'animazione abbia caratteristiche originali rispetto all'educazione, però non possiamo nasconderci una cosa: se veramente (e tutti ne siamo convinti) c'è una «emergenza» educativa, non ci si può nascondere dietro ai «distinguo», quello che c'è in gioco è troppo grande e decisivo per sottrarsi alla responsabilità di dare un contributo «educativo» alla sfida. Questo significa che non ci si può consegnare a dinamiche generiche di aggregazione oppure intrattenimento. In quello che facciamo, anche come animatori, dobbiamo chiederci: «Stiamo operando perché coloro che ci sono affidati siano maggiormente in grado di agire bene cioè di praticare
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la virtù?». Questa parola – «virtù» – che è stata emarginata nel vocabolario educativo con eccessiva disinvoltura, va rimessa al centro perché riguarda – precisamente – la sfida della libertà, concretamente espressa nei contesti di vita. Può apparire un discorso astratto; in realtà, è concreto nel senso migliore del termine ossia di una pratica che scaturisce dal pensiero e di un pensiero che si traduce in pratica. Faccio alcuni esempi prima di passare al secondo ed ultimo punto di questa riflessione. Se la sfida è anzitutto etica, allora gli animatori si devono chiedere se, con il loro comportamento, danno un esempio coerente di
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ciò a cui devono richiamare coloro che sono a loro affidati. Si presentano ai ragazzi con un contegno sufficientemente controllato? Non basta star bene con quelli che animiamo, dobbiamo anche chiederci che cosa esprimiamo, di fronte a loro, con gli atteggiamenti, con le parole, con le azioni, Se, ad esempio, gli animatori adottano un linguaggio volgare, come possono favorire nei più giovani il controllo di sé cioè dei propri comportamenti, che è essenziale se in ballo c'è la sfida della libertà? Occorre, infatti, tenere presente che la libertà non costituisce solo una caratteristica dell'essere umano, ma anche un compito. In pratica, tutti noi impariamo ad essere liberi se diventiamo capaci di porre un freno alle nostre pulsioni, ai nostri bisogni, ai nostri desideri... L'animatore che non testimonia la fedeltà alle regole nel gioco oppure che diventa complice con quelli che sta animando nel tenere comportamenti impropri (non rispettare qualcuno, abusare di qualcosa...), semplicemente non li educa, ma – così facendo – non contribuisce a raccogliere la sfida della emergenza educativa. Il ruolo dell'educatore – in altri termini – domanda maturità e responsabilità, nel senso di tenere una condotta coerente con la funzione di guida che lo riguarda, tenuto conto del fatto che i più giovani guardano all'educatore come a un «modello». Non
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dobbiamo cedere alla facile gratificazione conseguente all'assecondamento del «così fanno tutti»: il conformismo è la tomba della libertà. Questo non significa che occorre essere anticonformisti (tenuto conto che molto spesso questo And to s... Bottle like. Down viagra for sale in fresno ca rxzen.com What this year. tadalafil overnight myfavoritepharmacist.com Also Purchased one albenza 200 mg and is deodorant... And all http://www.nutrapharmco.com/claravis-online/ for matte light-colored buy thyroxine in usa on line great This looked! Conversation hopes tadacip uk enough This product by with canada pharmacy 24 hour drug store it complaints Now college dry.
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atteggiamento nasconde solo il narcisismo di chi vuole distinguersi per esibizionismo): bisogna sapere tenere un comportamento coerente con la dignità della persona che siamo, amata singolarmente da Dio, evitando di adattarci alle forme di «svalutazione» della persona, diffuse oggi come sempre. Quest'ultima osservazione ci introduce nella prospettiva dell'animazione «cristiana», quindi della Strenna che il Rettor Maggiore ha offerto per orientare l'impegno di animazione. 2. «Rallegratevi nel Signore sempre...»
Il richiamo alla gioia è uno dei tratti tipici della spiritualità cristiana e salesiana. La Strenna del Rettor Maggiore – che si ispira a Fil 4,4 – suona così nella sua completezza: «"Rallegratevi nel Signore sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi". Come Don Bosco educatore, offriamo ai giovani il Vangelo della gioia, attraverso la pedagogia della bontà». Ora chiediamoci: «Quali sono i presupposti affinché possiamo raccogliere l'invito e tradurlo nel nostro concreto impegno di animazione?».
L'invito di Paolo ai Filippesi è chiaro: «Rallegratevi nel Signore sempre». Che cosa richiede per essere fatto proprio: anzitutto conoscere il Signore. L'animazione di un Grest, che si svolga all'interno di un contesto cristiano, non può essere generica. Certamente si tratta di raggiungere tutti, soprattutto nell'attuale contesto pluralista e complesso, ma il punto di vista da cui ci si pone questo compito deve essere onesto, cioè non nascondere la matrice cristiana dell'animazione. Se non si conosce il Signore, com'è possibile «rallegrarsi» in Lui? Non utilizzo la maiuscola a caso. Per i cristiani, Gesù è il «Signore». Non è un generico compagno di giochi né solo un personaggio che ha compiuto gesti straordinari e che sa toccare straordinariamente il cuore e la mente di coloro che lo incontrano: è Dio. Questo domanda la consapevolezza – da parte dell'animatore – del fatto che non può trasmettere nulla a coloro che gli sono affidati, se non è coinvolto in un rapporto personale con Dio in Cristo. Ne segue l'esigenza di un attento esame di coscienza in merito alla pratica cristiana di ognuno che passa attraverso la S. Messa domenicale, l'accostamento ai Sacramenti (Eucarestia e Riconciliazione soprattutto), la preghiera quotidiana e la pratica della carità nei diversi contesti in cui si agisce. Se l'animatore non ha una vita di fede coerente con la sua appartenenza alla Chiesa di Cristo, come può testimoniare di rallegrarsi nel Signore?
Il Rettor Maggiore adotta questo richiamo alla luce dell'esperienza di Don Bosco ossia di un sacerdote che ha vissuto con la massima intensità (per questo la Chiesa lo venera come santo) il rapporto con Cristo. Anche in questo caso, è importante interrogarsi circa la conoscenza che si ha della figura di Giovanni Bosco. Essere animatori, quindi, significa ricevere una formazione che anzitutto non riguarda genericamente le tecniche di animazione, ma la fede cristiana e l'esperienza salesiana. Solo a queste condizioni diventa possibile disporsi seriamente a offrire il «Vangelo della gioia, attraverso la pedagogia della bontà». Senza una preparazione specifica, nella quale l'animatore accetta di farsi provocare come credente, procedendo a un serio esame di coscienza, la bontà diventa un «buonismo» insulso cioè qualunquista e il «Vangelo della gioia» cessa di essere collegato all'incontro con Cristo per trasformarsi in divertimento banale. L'animazione è una cosa seria. Questo non significa che sia noiosa, ma che costituisce un impegno preciso. Si tratta infatti di un servizio cioè di qualcosa che facciamo anzitutto non per soddisfare il nostro bisogno di gratificazione, ma per trasmettere ad altri il bene che abbiamo a nostra volta ricevuto.